Ognuno al termine delle vacanze ritorna alla vita di sempre: alzarsi presto la mattina trangugiando in fretta un caffè; prendere l’auto o un mezzo pubblico per raggiungere in tempo il posto di lavoro; buttarsi nelle mille cose da fare; difendersi dallo sguardo dei “capi”; vigilare, perché tutto sia efficiente; sbirciare l’orologio in attesa della fine delle ore lavorative; poi programmare un incontro e non fermarsi con nessuno; raggiungere luoghi indefinibili per riempire il tempo e stare da solo o in compagnia, vivere senza il controllo degli altri; rincasare tardi la sera e poi pensare alla fatica del giorno dopo.
Tutto sembra scandito dal ritmo incalzante del tempo: dove sono io e dove sono gli altri in questa corsa? Ma che senso ha tutto questo e dove ci porta? Quale consapevolezza di noi che non siamo nati per caso e che viviamo sempre sotto lo sguardo d’amore di Dio, anche quando ce ne dimentichiamo?
Viviamo il tempo del lavoro in attesa dello svago, siamo con gli altri e fuggiamo per rimanere da soli in contatto con i rapporti virtuali. Sfuggiamo la realtà tangibile, perché non riusciamo ad esserci con consapevolezza nel tempo presente.
Sprechiamo tante risorse che potrebbero essere impiegate per la cura di sé e del bene comune: non ci siamo né con la testa, né con il sentimento, né con l’azione, né con il corpo. Vaghiamo verso un futuro, anche prossimo, spesso privo di meta e ci lasciamo trasportare in un mondo che non c’è. Abbiamo paura dell’intimità, ci difendiamo mantenendo gli altri lontani, non riusciamo a gestire le relazioni, a tenere le redini della nostra vita tra le mani nel riconoscimento rispettoso di sé e di ogni altro.
Dove stiamo andando? Quali sono gli obiettivi che vogliamo raggiungere e come si coniugano con il Vangelo? Qual è il senso della nostra vita che illumina ogni attimo l’esistenza?
Rincorriamo il benessere individuale a tutti i costi, anche se lasciamo sul campo spaccature, ferite, a volte distruzioni; non cerchiamo un’alternativa al disagio esistenziale, che si acuisce nella misura in cui ognuno pensa a se stesso. L’idolo dello stare bene a livello individuale porta ad interrompere o a distruggere anche le relazioni più significative, senza pensare alle conseguenze. Badiamo solo a noi stessi, non sempre in un modo sano, non ci preoccupiamo dei cuori lacerati che lasciamo alle spalle.
È questione di ripiegamento su se stessi o conseguenza di un’adolescenza prolungata, che non consente di compiere un salto di qualità? C’è chi, dopo i quarant’anni, abbandona la famiglia, perché ha dedicato tanto tempo al marito, alla moglie, ai figli e ormai ha bisogno del tempo per sé; c’è chi, dopo tanto tempo di vita consacrata, sente il bisogno di lasciare tutto, perché è alla ricerca di qualcosa che lo faccia vivere pienamente. Si desidera affannosamente il tempo per sé, per realizzarsi, mentre non si individua un canale che consenta di prendersi cura autentica di sé e di chi ci sta accanto.
Chi in qualsiasi stato di vita non ha concluso il periodo dell’adolescenza, benché avanti negli anni, cerca l’indipendenza, confondendola con l’autonomia che permette scelte adulte, rispettose di sé e degli altri, sempre in fedeltà al senso liberamente scelto, Gesù Cristo e il Vangelo, e al proprio stato di vita. La mancanza di un salto verso l’adultità lascia aperta la fase adolescenziale, che continua a caratterizzare l’individuo al di là del tempo e dello spazio. Egli si illude di poter gestire da adulto la propria vita, in realtà apre un altro periodo adolescenziale e poi, esaurito questo, un altro, ecc., soprattutto quando non cerca il confronto o l’accompagnamento di qualcuno con cui allenarsi nell’affidamento. Chi lascia sempre aperta la porta dell’adolescenza, ha difficoltà a fidarsi di Dio, degli altri, ad affidarsi, a lasciarsi amare…
La maturità della persona si sviluppa attraverso il processo della propria individuazione e dell’appartenenza.
Mentre l’individuo consolida la propria identità, si riconosce un valore unico e irrepetibile e scopre anche il valore degli altri; in contemporanea, sviluppa il senso di appartenenza come apertura del cuore, capace di accogliere un altro/a o una comunità, in atteggiamento di dono totale di sé. Quando ciò avviene, sperimenta il senso di appartenenza, partecipa attivamente con gli altri e rimane connesso al di là della reciprocità, si coinvolge, interagisce con il contesto, senza modellarlo a propria immagine e somiglianza o secondo le proprie aspettative, aprendosi costantemente all’accoglienza della diversità.
L’esempio di Gesù insegna: la consapevolezza di sé quale Figlio di Dio lo porta a donare la vita anche per coloro che lo hanno tradito, rinnegato, deriso, calunniato, perseguitato … senza perdere l’identità o il senso dell’appartenenza.
Oggi, partendo spesso dalle proprie aspettative, non si coltiva la consapevolezza evangelica che l’altro/a o la comunità sono importanti, perché dono gratuito di Dio. Il Signore affida a ciascuno una porzione di terra abitata da servire, da coltivare, da amare così come com’è, per costruire insieme con gli altri il Regno di Dio.
Da qui l’urgenza, anche nelle nostre storie, di diventare adulti. Quando manca la maturità umana, fatichiamo a vivere in pienezza il Vangelo. Come noi cristiani stiamo curando l’adultità umana e spirituale, per poter portare un contributo valido oggi alla società, che stenta a fare un salto di qualità? Quale processi psicopedagogici da aprire, per passare dall’adolescenza alla sponsalità, alla paternità e alla maternità, alla generatività in qualsiasi stato di vita? Meditando la Parola, che cosa ci dice il Vangelo a questo proposito?
Fonte: agensir
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